Davide Frisoni: pittura come etimologia

di Gabriello Milantoni

Di assai felice ragione lessicale, il termine con cui Davide Frisoni ha desiderato riassumere il carattere delle proprie opere recenti invita a sostare su taluni dettagli.

Riflessioni, riflessione: nell’originario valore di reflexio, nome d’azione di reflectere, s’intende l’atto di ripiegare, volgere indietro, torcere, rivoltare, analogo all’anakámpto greco (ripiego, ritorco), voce finitima a kámpto (curvo, piego, incurvo), da una radice indoeuropea qamp, su base sumera gam (curvare, piegare) che parrebbe insediarsi anche nel kmarati sanscrito, vale a dire “essere curvo” e anche “cosa a volta”, per traiettarsi fino alla kamára greca, cioè “volta”, e “camara-camera” latina (volta, cielo fatto a volta). E, nel prevedere tuttavia anche la colorazione di reflectere animum, mentem, rivolgere la prima o la seconda a qualcuno o a qualcosa, è evidente che la gradazione successiva a torcere, voltare indietro e simili, vada a trattenere in ogni caso il senso di un gesto mentale o spirituale di qualche non corsiva difficoltà.

Nel percorrere immensurabili estensioni geografiche e impresagite successioni di èvi, e dalle une e dalle altre raccogliendo bagliori, sogni, angustie, necessità, ecco la parola approdar barcheggiando nel volgare d’Italia di Quattrocento, il Magnifico a Firenze, il Colonna a Venezia, elettissimi a cogliere l’esordio del vocabolo in procinto di diventar metafora di fenomeno luminoso: “Negli occhi nostri sono certi spiriti sottilissimi i quali si partono dagli occhi e vanno a quella cosa che si vede e la riportonla per riflessioni agli occhi…” (Lorenzo de’ Medici).

“… alcuni clepsifoti meati [i.e. interstizi captatori di luce]… cum alcune reflexione per gli oppositi, sufficientemente elucicavano”
(Francesco Colonna).

Riflessione che non è riflesso: nell’essere il secondo prodotto del primo (Dante “… come iri da iri/ parea reflesso…”), in corrispondenza con la repercussio, cioè riverbero.

E ancora del tempo sarà necessario affinché il sostantivo acquisti stabile dimora quale “attento esame di fatti, argomenti, problemi”. Alessandro Piccolomini, senese, 1575: “Questa reflessione di conoscimento”; Emanuele Tesauro, torinese (+1675):“nobilissima è… la riflessione, che da’ Latini si potria dire animadversio”, ovvero por mente, attenzione, osservazione, considerazione.

Ciò per dire che Davide Frisoni, con questi suoi dipinti, è a dichiarare a tutta voce quanto l’arte non possa altrimenti esser che linguaggio e come tale, senza mezzi termini, abbia a essere assunta vuoi dall’artista che l’esprime vuoi dall’esegeta che la osserva: sistema in figura che, al pari del naturale e del verbale, non facit saltus, non può sopprimere etimi, grammatiche, sintassi, abita nel flusso dell’umano esistere, ne coglie e tramanda le sostanze, storie recondite e ostentazioni, cuori segreti e pubbliche passioni, vicende clamorose e celate iniziazioni. Tutto: l’arte, come la lingua, è vita, è storia, sconfinato archivio di incomparabili identità.
Sull’immenso territorio occasionato dalle aperture del Longhi, che allineò di fatto come “gloria della lingua…la poesia ‘in parola’ [e] quella ‘in figura’”, anno 1950, decretando, una volta per tutte, come l’opera d’arte sia “sempre un capolavoro squisitamente relativo”, sia “sempre un rapporto… almeno… con un’altra opera d’arte”, Davide Frisoni parrebbe aver infisso i propri occhi rivelando, per via dipinta, in quale incandescente misura il proprio dispositivo artistico sia anche congegno critico issato a corroborare le verità impresse nelle proprie iridi di pittore.

“Riflette” pertanto su di sé come artista “in relazione”: e son giganti coloro con cui si confronta (da Tiziano a Caravaggio a Rembrandt a Ingres, Böcklin, Burri), per amarne le Bellezze, per percepirne i battiti dei cuori e rintracciarne, da poeta, da filologo, gli etimi, l’etimo (ovvero, ancora una volta: ẽ étymon, “il vero”) che trasfigura in opulenti materie di luce, di colore, che son terre e olii e polveri di quarzo frementi e vigorosi, blu di Prussia, vermiglio, indaco, oro, che a loro volta “riflettono” se stessi, ovvero specchiano e riverberano ovunque nel nostro mondo i propri lessici trasfigurati, sull’acque notturne del mare in riviera, tra luci e girandole di divertimenti estivi, o su oscuri asfalti di strade lucide di pioggia.

E così Frisoni ci indica che in ogni sorta di luogo può perdurare quella Bellezza che nei secoli maestri inattingibili racchiusero nei perimetri di tele, di tavole, di pareti, a custodire splendori d’anime supreme. E nell’invitarle a noi, nel lasciarle libere di visitare anche l’ordinaria modestia di anonimi selciati di città, Frisoni intesse colte emozioni e inattesi stupori, là dove può ricordar persino lo sguardo consacrato dal Caravaggio al travolgente ingombro della statuaria antica, alle cui forme, alla cui avvenenza, il pittore consentì di evadere dall’intoccabile parterre in cui le avevan rinchiuse l’ammirazione dei dotti, il gusto degli eruditi, per lasciarle libere di penetrare in corpi squallidi, per strada, al buio, in notti lacerate per un istante dalla promessa di un fiato di luce.
Con gesto potente e sguardo intramato di lucida passione, Frisoni dunque “riflette” sui maestri che lo “riflettono”, mentre riverbera sé e loro nel mondo, nella vita.

E nel reflectere, nel faticoso, struggente piegare, curvare, inarcare se stesso volgendosi indietro a scrutare con occhio infallibile i puri etimi delle sorgenti, la loro intoccata “verità”, per meglio intenderne la trepida repercussio, il luminoso riverbero tra i lessici sfibrati dalle infoscate brume dell’oggi, ecco Davide Frisoni, il suo poetare ruvido e fiammante, il suo campir le tele con incessanti evocazioni di stupefatte sostanze pittoriche, mettere in pagina quale mistero, quale eternità, quale splendore si addensino infine tra le ore opache e neglette di giorni qualunque, di ore senza nome.

E a tutti indica un riscatto, e a ciascuno rimerita la via, nell’incanto e alla luce di pulviscoli d’incorruttibile splendore, etimi perfetti, reflexiones mai perdute, a memoria del tempo, dei tempi, profuse per sempre, in ogni dove.

Al solo affacciarsi sullo sconfinato deposito delle sapienze storiche, l’impressione che se ne ricava è, alla prima, che tutto sia già stato detto, e che le scoperte siano in realtà riscoperte continue, assidui lavori di risemantizzazione svolti con maggiore o minore consapevolezza su modelli per la maggior parte trascorsi.

Non dimentichiamo infatti che : “L’opera d’arte, dal vaso dell’artigiano greco alla Volta della Sistina, è sempre un capolavoro squisitamente ‘relativo’. L’opera non sta mai da sola, è sempre un rapporto. Per cominciare: almeno un rapporto con un’altra opera d’arte. Un’opera sola al mondo non sarebbe neppure intesa come produzione umana…” (Roberto Longhi, 1950).

L’enorme rivelazione consegnataci dal Longhi, nel prendere le distanze sia dagli idealismi sia dai marxismi, investe e scardina due ambizioni complementari: quella dell’artista “moderno” incline a ritenersi contemporaneo solo di se stesso, e dunque artefice di unicità, produttore di novità assolute; e quella del critico, propenso ad avallare la presunzione, quand’anche non ad alimentarla, con teorie messe in piedi senza guardar le opere, eludendo “il controllo continuo, immancabile, dell’opera-base”.

Ma nel togliere all’artista questo primato, Longhi certo non ne deprime i risultati relegandoli nella sorda galleria del già detto, che si profilerebbe angosciante e infinita: al contrario.

Il potente gesto critico del Longhi attribuisce per la prima volta all’artista operoso dal Medioevo a Morandi un incalcolabile privilegio, l’inimmaginabile libertà di porsi in contatto, di mettersi “in rapporto” con gli impresagibili flussi della storia, di azzerare il tempo che dunque non sta là serrato e morto e seppellito in un passato di cenere…

… ma è vivo, attuale fecondo e dunque in grado di animare instancabilmente il presente, di conferirgli corpo e voce che, per essere anche “in rapporto” equidistante con l’universo immaginativo tanto remoto quanto prossimo, fa dell’arte un fatto umano “squisitamente relativo”.

In altre parole: la tradizione, buttata fuori con gran baccano dalla porta, rientra silenziosa da una finestra lasciata per caso socchiusa. Il respiro viaggiante e universale delle immagini, il passato, la storia, muti definitivi archivi del mondo, ritornano là dove meno si attendono.

L’etimo delle drammatiche combustioni di Burri o i suoi cretti neri sono i grumi roventi di Rembrandt o le pareti buie di Caravaggio precipitati nel cuore nel Novecento; per Morandi pensiamo a Chardin, su De Chirico “barocco” rammentiamo Rubens e Pietro da Cortona, per Boccioni ricordiamo gli squilli di luce dei decori astratti nei mosaici bizantini.

Chi vorrà ancora brandire pennelli e colore dovrà pertanto aver ben chiaro che tutto, ma proprio tutto è stato detto e che setole e pigmenti e materia e tele, tavole, intonaci e quant’altro saranno barche, scialuppe, zattere messe in mare con la speranza che qualcosa, dagli abissi, s’impigli nelle grandi reti per consegnarlo, rianimato dallo spirito del tempo, rinfrancato dalle proprie verità, all’oggi, al domani, a noi, al futuro.