di Alessandro Moscè
Davide Frisoni è un pittore di Rimini che ci piace definire metafisico. Ma non perché trascenda e ricerchi un senso superiore dell’esistenza, una sacralità religiosa, filosofica, concettuale, ma perché la sua metafisica è nell’oggetto quotidiano, come lo è stato per Giorgio Morandi con le sue bottiglie. Tutto appare come lo vediamo, nel segno netto e cristallino, ma c’è di più: una conoscenza en plein air, concentrata, mai definitiva del nostro esserci. Frisoni si ferma sulla terra, il suo habitat, in un vincolo di accadimenti ordinari come passeggiare, attraversare una strada, guidare l’automobile. Il cittadino vede l’altro, le insegne di un bar, di un albergo, un lampione con la sua luce, un catarifrangente, un faro, una segnaletica, le strisce pedonali, la noiosa esibizione delle consuetudini cittadine, una bassa inquadratura. Eppure questi scorci anonimi nella costa adriatica diventano eletti quando il silenzio si dirama tra gli edifici che si fronteggiano nei giorni di pioggia. Le riflessioni temporali, i volti, le vedute e i riflessi sono mitografici perché ci consegnano i nostri anni, il nostro secolo frenetico e vacuo, indifferente ma non sconnesso. Frisoni va oltre l’iperrealismo. Il riflesso delle opere è opalino o cangiante, come il tremolio dell’atmosfera, del giallo e dell’azzurro a volte sferzanti, del nero notturno di un cielo vasto che cala pesantemente dall’alto, rappreso intorno alla luce artificiale o lunare. Valerio Dehò ha scritto di “una pittura che mette in scena la nuova realtà in espansione che passa indifferentemente dalla rappresentazione rivissuta di soggetti tradizionali allo svelamento di quelle fessure nel vivere quotidiano in cui si annunciano le cose a venire. Questo è l’aspetto interessante di un’arte, anzi della pittura tout court, che si pone sempre al servizio della conoscenza e della rivelazione del nuovo”. Il nuovo è un luogo: bagnato, irrorato, raffreddato. Questi frammenti di ferialità sono passaggi in cui Davide Frisoni incontra e interpreta gli stessi non luoghi dell’antropologo Marc Augé, quella circolazione accelerata che definisce il lavoro e lo svago, operazioni sì reali, ma anche simboliche. Luoghi interlegati, on the road, dove succede tutto e non succede nulla. Frisoni è un pittore in transito, che delinea la provvisorietà del gruppo sociale, che entra, accede agli appuntamenti. Altra cosa sono i volti, che riscoprono il bene della persona e un fotogramma muto, una vivida impressione, una dimensione soggettiva come alternativa alle altre opere. Frisoni usa un linguaggio nella sospensione dell’esistenza, in uno spazio finito, nelle gesta smorzate. Il luogo (o non luogo) è un’immagine visibile a partire dalla fermata ad un semaforo, non da un altrove, ma da luogo abitato da pensieri e appunto da riflessioni. Ciò che vediamo è un esterno, un avamposto pubblico, perfino una pavimentazione neppure particolarmente curata. Qualcosa arriva e sfugge, fa distogliere lo sguardo. La presa della pittura è solo momentanea, non ha bisogno di una lente d’ingrandimento, di un occhio che clinicamente osservi. Il tratto, o meglio il cammino, e quindi l’istantanea, è implacabile, non lascia insensibili. Frisoni è un artista che inquieta perché assedia. Non percepiamo mappe orientative, percorsi guidati, ma un girovagare ossessivo, fascinoso. E’ specie la notte che turba, perché questi viali, queste deviazioni non dicono tutto, nel segno dell’acqua marina in lontananza o del tombino in primo piano. Non siamo dinanzi ad una fotografia pittorica, ma ad un rispecchiamento che produce l’essenza. Nella natura multiforme il pensiero c’è, è vagheggiato, attaccato agli occhi del nottambulo. E’ un pensiero non detto, mentale. Ecco la metafisicità, l’idea in espansione, il silenzio che fa rumore oltre il luogo/non luogo. Solo apparentemente le storie di Frisoni sembrerebbero inumane, quando plasma i suoi ambienti che brulicano di aperture, di evasioni diurne e notturne. La strada fornisce il mezzo per far emergere l’indicibile, un riannodare i fili del presente al fine di capirlo e di distinguerlo da ciò che appare in superficie e sul piano realistico-oggettivo. Vengono in mente dei versi di Eugenio Montale: “E senti allora, se pure ti ripetono che puoi, / fermarti a mezza via o in alto mare, / che non c’è sosta per noi, / ma strada, ancora strada, / e che il cammino è sempre da ricominciare”. Davide Frisoni dà il là con la sua quiete scarna, senza compiacersi delle figure retoriche che confinano con la Rimini eternamente presente, ma fuori dal divertimentificio estivo e vacanziero. La riflessione, non disancorata dal vedere (nessun astrattismo potrebbe persuaderlo) ha il carattere dell’assolutezza, anche se non si smaterializza. La misura stilistica e l’insieme vanno conservati in una “carta filigranata” tra gli asfalti. Fenomeno e noumeno sono il lascito di uno schema costruttivo degli urban landscapes in oli su tela, oli su carta e grafica digitale.